Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  martedì 03 gennaio 2006
 Direttore: Gualtiero Vecellio
"Niente antidepressivi, grazie"

di Luigi Castaldi

“Leggo su Repubblica una bella intervista a Philip Roth […] tutta centrata sulla sacrosanta paura che il romanziere prova per l’avvicinarsi della morte”, così attacca Luca Doninelli, sul Giornale di venerdì 30 dicembre, il suo pezzullo dal titolo Il credente non è un uomo di serie B. L’intervista cui fa riferimento è quella che Repubblica ha ripreso dal Guardian di mercoledì 14 dicembre (firmata Martin Krasnik) e, in realtà, non è affatto “tutta centrata sulla sacrosanta paura che il romanziere prova per l’avvicinarsi della morte”: al giornalista che gli chiede se ha paura della morte il romanziere si limita a dire che sì, ne ha,  “it no longer feels a great injustice that I have to die”, cosa un po’ distante dallo stato d’animo che vi ha letto Luca Doninelli; peraltro, l’argomento è sbrigato in meno di 1000 battute delle 12.000 dell’intera intervista. Ma, forse, c’è un motivo per questo modo un po’ mistificatorio di introdurre il suo argomento polemico: a Luca Doninelli – questo egli scrive – non è sceso giù che Philip Roth abbia voluto dare per “indiscusso e indiscutibile […] il presupposto, largamente condiviso nelle società ricche, […] che la fede sia essenzialmente qualcosa che una persona si dà, una sorta di appoggio psicologico, un conforto, […] che la religione sia una necessità per i deboli” e che “così, il credente resta un uomo di serie B, magari bravo e generoso, intelligente anche, ma dalla mente ristretta”. Avrà sentito come offesa personale quello che Philip Roth ha detto in quell’intervista, il Doninelli? I’m exactly the opposite of religious […] I’m anti-religious. I find religious people hideous. I hate the religious lies. It’s all a big lie”. Come altrimenti spiegare una seconda sua piccola mistificazione? Che “la fede sia essenzialmente […] una sorta di appoggio psicologico, un conforto” non è assolutamente opinione di Philip Roth, ma del suo intervistatore che, alla domanda fattagli Roth se è credente, risponde “no, but I’m sure that life would be easier if I was”, riavendone un “oh, I don’t think so, I have such a huge dislike”. Chiaro è che per Roth la religione è una bugia inservibile ai conforti esistenziali; fosse per lui, nemmeno parlerebbe di religione, “I don’t even want to talk about it, it’s not interesting to talk about the sheep referred to as believers”. Per quale motivo Doninelli voglia fargli dire altro da quello che Roth dice è nel resto del suo pezzo: breve, apparentemente anodino, epperciò relegato in angolino di taglio basso a pag. 27, ma denso di significati che qui varrà la pena – oso sperare – di analizzare.

Da questo “presupposto […] che la fede sia essenzialmente […] una sorta di appoggio psicologico, un conforto”, che, guarda caso, è “largamente condiviso nelle società ricche”, mentre per i poveracci la fede è vita – da questo “presupposto” che Luca Doninelli coglie in un fuggevole inciso di Martin Krasnik e attribuisce a Philip Roth – l’articoletto muove la sua obiezione polemica. In realtà, quello che non va giù a Doninelli è proprio l’atteggiamento di chi la pensa come Krasnik: “Una volta accettato questo presupposto ormai tacito [e questo aggettivo pare il miglior lapsus, commenterei], si può benissimo valorizzare la religione [e abbiamo visto quanta intenzione ne abbia Roth], si può discutere della Chiesa e del Papa, trovare parole di apprezzamento, comprenderne l’autorevolezza morale [sarebbe la posizione di chi, pur non credente, è disposto a concedere alla religione un ruolo di antidepressivo individuale e sociale] e soprattutto l’importanza politica [e questa, infine, pare una mazzata micidiale ai teocon de noantri, i cosiddetti ‘atei devoti’]. Costoro – i non credenti che, a differenza di Roth, pensano che la religione sia una bugia per più d’un verso necessaria – finiscono così col ritenere che “il credente […], magari bravo e generoso, intelligente anche” sia uno “dalla mente ristretta”; e che “quando tra le file dei credenti si fa strada un uomo di prim’ordine, il sospetto è che sia solo un attore, che reciti – nobilmente – allo scopo di reggere un apparato”. Si badi: Doninelli non ce l’ha con Roth, e forse neanche con Krasnik; ce l’ha con la vulgata del “Papa ateo”, peraltro non nata in una delle “società ricche” che avrebbero come peccato originale il loro rifiuto della dimensione trascendente, ma nella miseria rurale dell’alto medioevo, a fronte delle scandalose gesta e non meno scandalosi detti di pontefici come Silvestro II e Paolo III. L’appello di Luca Doninelli – il suo esorcismo contro questa vulgata – è a “rinunciare al nostro orgoglio e ammettere la possibilità, niente più che la possibilità che qualcosa di ‘altro’ da noi si possa presentare, imprevedibilmente, nel cosmo e nella storia, pronunciando un’impossibile parola di Bene”. Ora, chi farà presente a Luca Doninelli che “ammettere la possibilità, niente più che la possibilità” di Dio è fattispecie di agnosticismo, sonoramente vergato da Sua Santità? Chi gli farà presente che dire “impossibile” – fosse pure in bizzarra confettura retorica – una “parola di Bene” fa di lui, a pieno diritto, proprio un venditore di speranze “per riuscire a far fronte alla marea, allo tsunami dell’esistenza”? Aveva aperto il suo articoletto rigettando il ruolo della fede come mero abbandono all’adagio che recita “uno a qualcosa si deve pur attaccare”; lo chiude con la tristezza del venditore al quale coloro che preferiscono considerarsi “soli a lottare senza speranza contro un universo buio” abbiano sbattuto la porta in faccia dicendo “niente antidepressivi, grazie”. Â